Siamo di fronte a una deriva epocale, un paradosso così grottesco che solo un sistema autoreferenziale e malato poteva partorire.
Il mondo dell’arte rende protagonisti più i curatori e i selezionatori degli artisti.
Ormai, entrate nel sito di un evento famoso e trovate le foto del critico arcinoto, dell’ospite d’onore, dei curatori, ma nemmeno un artista.
È come aprire il sito di Wimbledon e trovare le foto degli arbitri, degli organizzatori, degli accompagnatori e non di Sinner e Alcaraz.
Questo non è un semplice scambio di ruoli e no, non si tratta neppure di un errore.
È il sintomo di un linguaggio artistico profondamente indebolito, omologato e incapace di produrre verità, soprattutto, incapace di produrre ciò che serve agli artisti oggi.
No, non è vero che è tutta colpa dell’assenza di artisti carismatici e di opere memorabili, anche se ci sono troppi artisti “fotocopia” e pochi capaci di dire qualcosa di interessante.
La verità è che, ormai, con il mondo online che vale più di quello reale, gli eventi fisici sono solo un tornaconto per i curatori, se non si tratta di eventi esclusivi, dove si può dare molto spazio agli artisti.
E per esclusivi, intendo eventi in cui si possa parlare degli artisti prima, durante e dopo la mostra, dove gli artisti non sono stipati in capannoni o palazzi lussuosi, a centinaia, ma in sale raccolte, con un massimo di 20 partecipanti.
Solo così si può portare avanti quel lavoro di branding che è l’unico che serva davvero oggi per un artista.

Perché, che piaccia oppure no, che tu sia idraulico, avvocato, medico o calzolaio, se non esisti per Google, non esisti per nessuno, se non per i tuoi parenti, gli amici e qualche passante.
Non esiste attività che possa andare a gonfie vele, oggi, senza un’ottima brandizzazione.
Nessuno sceglie una bevanda sconosciuta o un vino da quattro soldi, potendo optare per CocaCola e per il Brunello di Montalcino. E non perché siano di qualità, ma perché hanno un blasone. Allo stesso modo, un collezionista compra Picasso per il nome, senza che debba piacergli per forza.
Contava trent’anni fa e conta molto di più oggi. Perché oggi, a differenza di trent’anni fa, i galleristi non possono prendere in giro i collezionisti, spacciando dei signori nessuno per futuri Van Gogh.
Oggi, ci si documenta immediatamente su Internet e, se cercando Marco Bianco esce l’elettricista e l’osteopata, ma neanche una riga sul pittore, significa che quel pittore vale zero a livello di brand. Può avere anche un curriculum chilometrico, ma conta il brand.
Il resto, comprese le strategie che funzionavano fino a ieri, è aria fritta.
Il problema è che non tutti i professionisti dell’arte hanno studiato Branding e Marketing negli ultimi cinque anni, perciò cercano di barcamenarsi tra il sentito dire e lo “speriamo che me la cavo”. E non tutti hanno voglia di continuare a tornare nelle aule universitarie, come, invece, fa da sempre il sottoscritto.
Il curatore tradizionale non è più un facilitatore né è più un critico illuminato che stende un ponte tra l’opera e il pubblico, semplicemente perché non è più così che si deve lavorare per gli artisti.
Tuttavia, non sapendo come lavorare oggi, ecco che è diventato l'”autore”. L'”artista supremo” che usa gli artisti veri come colori sulla sua personale tavolozza, per riqualificarsi come personaggio.
Se ci badate, anche i nomi più blasonati, durante i vernissage parlano più di sé stessi e dell’evento. Solo raramente fanno qualche accenno alle opere in esposizione, ma non spendono praticamente mai due parole per gli artisti.


Il risultato è che, se cercate quell’evento a cui avete partecipato due o tre anni fa, su Internet trovate la locandina, le foto del professorone super mega famoso, persino l’attrice star intervenuta come madrina, ma su di voi trovate, nella migliore delle ipotesi, solo qualche foto che avete scattato voi e postato sui vostri social.
Anche perché, spesso, si tratta di vere e proprie fiere, con oltre duecento pittori in mostra. Come si può lavorare sul nome di un artista, se lo si fa esporre insieme ad altri 199?!
E come si può presentare ciascun artista – come invece faccio io a tutti i miei eventi con max 20 artisti – se sono 200?!
IL FALLIMENTO DELL’ARTISTA DA 10 MOSTRE L’ANNO.
Il problema, tuttavia, è anche da parte degli stessi artisti, che faticano a comprendere che non esiste una domanda di arte. Nessuno aspetta il sabato per correre ad acquistare un’opera.
Le persone vogliono computer, smartphone, tablet, una pizza con gli amici, un nuovo paio di scarpe.
Poi, certo, tra i più facoltosi – e anche i più intelligenti in materia di investimenti – qualcuno desidera investire qualche soldo in opere d’arte, ma non cerca qualcosa che gli piaccia da appendere sopra il camino.
Quello è l’acquirente sporadico, occasionale. Il vero intenditore investe. Perciò compra solo ciò che gli garantisca un guadagno nel breve/lungo periodo.
Ecco perché non si compra tizio o caio, anche se le sue opere sono fantastiche ed è laureato all’accademia.
Si compra un nome, perché il nome colpisce, come CocaCola e il Brunello. Come Djokovic.
Se vedessi in vendita la mia racchetta usata nell’ultima partita della mia carriera a 5000 euro, ti metteresti a ridere, domandandoti, “ma chi accidenti è questo?!”
E avresti ragione. Perché la mia carriera è stata solo nei dilettanti ed è durata un paio di stagioni.
Ma se Djokovic mettesse in vendita la sua, quando deciderà di ritirarsi, a 5000 euro, penseresti che è un affare.
Infatti, per il più grande tennista della storia, – numero di trofei alla mano – un’operazione del genere potrebbe partire almeno da 50.000 euro. E a un’asta, le cifre potrebbero diventare iperboliche.
Ma immagini il valore di quella racchetta quando Djokovic sarà passato a miglior vita – augurandogli di campare il più a lungo possibile, ovviamente?
LA SOLUZIONE È NEL CAMBIO DI PARADIGMA. FISICO ESCLUSIVO E DIGITALE.
Il vecchio modello è morto. È dispendioso, inefficace e autolesionista. Correre di città in città per partecipare a collettive affollatissime è un percorso da formiche.
Non serve a nulla. Nessun collezionista serio acquista da perfetti sconosciuti. Acquista da artisti che hanno un brand solido, una visibilità calibrata e un mercato secondario affidabile.
Oggi la vera rivoluzione è tecnologica e di comunicazione.
Conta esistere online, in gallerie virtuali ad alta visibilità che lavorano per indicizzare il nome dell’artista. Che costruiscono il suo brand 24/7, in tutto il mondo.
Che mettono l’artista al centro, non il curatore.
VIDEO DI UNA MOSTRA VIRTUALE IN SOULHARMONY
SOULHARMONY GALLERY: UN ESEMPIO VIRTUOSO DI COME SI DOVREBBE OPERARE.
Per questo ho creato Soulharmony Gallery, nel 2017. E Soulharmony aveva già allora una visione chiara: il futuro è il branding dell’artista attraverso il digitale.
Una galleria che lavora per l’artista, non per i curatori. Una galleria che si sta rifacendo il look per un 2026 che sarà ricco di sorprese internazionali per gli artisti che ne faranno parte.
Costruisce la sua narrazione, la sua visibilità, il suo valore di mercato in un ecosistema globale. È l’unico modo per emanciparsi dal sistema malato delle fiere e delle mostre.
Il progresso tecnologico non è solo uno strumento. È la strada maestra per restituire centralità al genio creativo dell’artista, bypassando il rumore di fondo di un sistema che ha smarrito la sua rotta.
Tuttavia, il percorso non è con il vento in poppa e non si tocca terra dopo pochi giorni. Servono pazienza, disciplina e costanza. E bisogna farsi entrare in testa che, se prima non costruisci un nome solido, non potrai mai pretendere di vendere opere d’arte al giusto prezzo.
Potrai svenderne qualcuna di tanto in tanto. Ma, per la legge dei grandi numeri, talvolta capita a tutti.
Conosco anche pittori domenicali che si vantano di vendere decine di opere online, in tutta Europa e senza aver mai fatto branding con nessuno. Peccato che chiedano 250 euro per opere 100×100 centimetri, compreso il trasporto della tela.
Coprono a malapena i costi, tra tela, colori e trasporto. Senza considerare l’opera dell’ingegno, le ore di tormento, di ideazione e di realizzazione. E gli anni di studio?
Quando un avvocato vi chiede 500 per una lettera, pagate anche i suoi studi, la sua competenza. E se è bravo e noto, vi chiede molto di più. Un Taormina, per esempio, non è per tutti.
Ah, anche Soulharmony non è per tutti. Solo al massimo 35 artisti durante tutto l’anno.
Perché dobbiamo avere il tempo di lavorare per ciascuno.
Ora, se vuoi provare a entrare in Soulharmony Gallery, inviami, senza impegno, alcune tue opere a:
info@pasqualedimatteo.com.
Dott. Pasquale Di Matteo